La Corte Suprema Indiana ha dichiarato irricevibili le richieste avanzate dalla difesa dei due marò Latorre e Girone, miranti ad ottenere un prolungamento di quattro mesi della libertà provvisoria per convalescenza di Massimiliano Latorre, attualmente in Italia per curarsi dopo un ictus, ed una licenza straordinaria natalizia per Salvatore Girone. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti, dopo mesi di torpore sulla vicenda, ha improvvisamente tuonato, facendo eco al rammarico del Capo dello Stato: "E' una decisione grave che non ci aspettavamo. Siamo vicini ai nostri militari e come Italia pensiamo a come rispondere". Le condizioni di Latorre continuano a destare preoccupazione tra i medici, che non escludono a breve di sottoporlo ad un intervento chirurgico, anche per questo motivo il ministro, forte del parere dei medici curanti, ha ribadito che: " Latorre si deve curare qui in Italia e non vedo quindi come possa tornare in India. Noi non ci muoviamo da questa posizione". Un incoraggiante seppur tardivo cambio di rotta quello della titolare della Difesa che ridesta con un sussulto la fino ad ora passiva e scombinata reazione italiana alle illegalità ed ai soprusi del governo indiano. Entro breve le diplomazie dei due paesi, che recentemente stanno intensificando i propri incontri, potrebbero pervenire alla formulazione di una proposta di risoluzione condivisa della vicenda che poggi inevitabilmente su di un impegno di reciproca opportunità politica. Latorre e Girone intanto si apprestano a vivere l'ennesimo Natele anomalo.
venerdì 19 dicembre 2014
sabato 6 dicembre 2014
Gli eserciti balcanici nella Prima Guerra Mondiale
E' uscito da qualche mese, nella collana Biblioteca Arte Militare della Libreria Editrice Goriziana, la traduzione in italiano di Armies in the Balkans 1914-18 di Nigel Thomas e Dusan Babac, pubblicato per la prima volta nel 2001 per la Osprey Pubblishing. Con il titolo italiano "Gli eserciti balcanici nella Prima Guerra Mondiale", risulta opportunamente tempestivo nell'anno di avvio delle commemorazioni per il Centenario della Prima Guerra Mondiale. Il testo, in un centinaio di pagine, fornisce un rapido resoconto delle operazioni condotte nel complesso scenario dei Balcani a partire dall’assassinio a Sarajevo dell'Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e la conseguente invasione della Serbia da parte dell'esercito austroungarico, fino alla fine del conflitto attraverso quattro anni di intensi combattimenti che videro impegnati, oltre agli eserciti austriaco e serbo, anche quelli tedesco, ottomano, montenegrino, albanese, britannico, francese, italiano, russo, bulgaro, greco e rumeno. Una enorme partecipazione di uomini e mezzi che solitamente viene oscurata dal ricordo delle contemporanee battaglie sul fronte occidentale e su quello italiano. Avvalendosi di ben 24 tavole a colori dell'ottimo illustratore Darko Pavlovic, con oltre 30 fotografie d'epoca e diverse tabelle sono presentati molti degli eserciti poco conosciuti della Grande Guerra, con l'aggiunta di 5 tavole in bianco e nero raffiguranti gli attributi delle uniformi. Sono ben descritte la varie sfumature di feldgrau austriaco, le caratteristiche calzature in pelle tradizionali bulgare, indossate anche in combattimento, l'organizzazione delle trincee greche in cui spiccano le pittoresche tenute degli Euzoni. Un valido contributo ai lettori italiani sullo svolgersi delle vicende su un fronte, in apparenza secondario, che vide un impegno determinante delle forze armate italiane.
giovedì 13 novembre 2014
L'ultimo volo dell'asso
Addio a Luigi Gorrini, Medaglia d'Oro al Valor Militare, ultima leggenda vivente dei piloti da caccia della Seconda Guerra Mondiale. Si è spento l'8 novembre presso l'ospedale di Piacenza.
È morto all’età di 97 anni l’ultimo «asso» dell’Aeronautica. Aderì alla Rsi: «Volevo proteggere le città del Nord Italia dai bombardamenti indiscriminati»
Nell’Aeronautica militare italiana era una specie di leggenda: l’ultimo degli «assi» - e a detta di tanti il migliore - del cielo. Luigi Gorrini, questo il suo nome, si è spento a Piacenza, all’età di 97 anni. Durante la Seconda guerra mondiale abbattè 24 aerei, a sua volta fu abbattuto 5 volte, lanciandosi con il paracadute e restando vivo, nonostante gravi ferite, grazie a circostanze che ebbero del miracoloso. Atterrando su stagni e chiome di alberi che attutirono la violenza dell’impatto.
«Con Salò perché volevo difendere le città dai bombardamenti»
Meglio chiarirlo subito: gli aerei abbattuti erano tutti inglesi e americani, Spitfire, Mustang, Lightning, Fortezze volanti. Perché dopo l’8 settembre Gorrini, senza esitazioni, lasciò la Regia Aeronautica per volare sui caccia della Repubblica Sociale di Salò. Un’adesione spiegata così: «Dopo aver volato per tre anni fianco a fianco con i piloti tedeschi, sulla Manica, in Nord Africa, Grecia, Egitto, Tunisia e - infine - sulla mia patria, avevo fatto amicizia con alcuni di loro... non volevo fare la banderuola, per dire così, e forse sparare sui miei amici tedeschi. Inoltre, volevo proteggere le città del Nord Italia dai bombardamenti indiscriminati, per quanto possibile».
Ufficiale solo dopo la pensione
Ufficiale solo dopo la pensione
Gorrini entrò in Aeronautica giovanissimo. Pilota sottufficiale. Ufficiale lo diventò soltanto dopo la pensione, nel 1979. Finita la guerra, era rientrato nei ranghi dell’Aeronautica militare nonostante l’opposizione iniziale del comando alleato, che non aveva dimenticato come l’aviatore italiano pareva aver fatto quasi un fatto personale di quei duelli in cielo contro i caccia di Raf e Air Force. Volando con le insegne di Salò, Gorrini abbattè diversi bombardieri in missione nel Nord Italia. «Inventò» una tecnica di attacco che gli valse l’ammirazione della Luftwaffe dalla quale ricevette anche due Croci di guerra. In sostanza, superava la quota di volo dello stormo avversario per poi buttarsi giù in picchiata a tutta velocità, quasi come un kamikaze, individuando il bersaglio che cercava di colpire avendo a disposizione solo una manciata di secondi. Manovra che terrorizzava i mitraglieri avversari ma che per il pilota era rischiosissima, aumentando il rischio collisione con i bombardieri.
Alessandro Fulloni tratto da Il Corriere della Sera
La motivazione della Medaglia d'Oro:
«Audacissimo cacciatore del cielo, già distintosi per l’abbattimento di due aerei avversari, faceva rifulgere ancora le sue eccezionali qualità di combattente indomito, attaccando sempre e dovunque il nemico. In 132 combattimenti aerei col fuoco inesorabile delle sue armi abbatteva numerosi grossi bombardieri e ne colpiva efficacemente un numero ancora maggiore, prima di essere a sua volta abbattuto. Salvatosi col paracadute, ustionato ma non domo, tornava con coraggio inesauribile ad avventarsi contro l’avversario continuando a conseguire brillanti successi con l’abbattimento e il danneggiamento di altri aerei. Ineguagliabile esempio di ardimento e di dedizione alla Patria. »
Cielo dell’A.S.I. - Egitto - Grecia - Italia, 3 giugno 1941 - 31 agosto 1943.
Gorrini era insignito inoltre di due Medaglie di Bronzo al V.M. concesse dalla Repubblica Sociale Italiana, tre Croci al Merito di Guerra e della Croce di Ferro tedesca di I e II Classe. Era Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica. Nato ad Alseno, in provincia di Piacenza, il 12 luglio 1917, dall'11 novembre riposa accanto all'amata moglie Luisa nel cimitero di Castelnuovo Fogliani.
Oltre al Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Militare, ha voluto esprimere il suo personale cordoglio alla famiglia anche il Presidente della Repubblica:
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa la notizia della scomparsa della Medaglia d'Oro al Valor Militare, Luigi Gorrini, ha espresso ai familiari il sentito cordoglio ricordando il valoroso aviatore che ha servito la Patria con onore e spirito di sacrificio.
Il Capo dello Stato ha altresì inviato al Presidente del Gruppo Medaglie d'Oro al Valor Militare, Generale Umberto Rocca, un messaggio nel quale sottolinea la dedizione e il senso del dovere di Luigi Gorrini. Roma, 11 novembre 2014
Il Capo dello Stato ha altresì inviato al Presidente del Gruppo Medaglie d'Oro al Valor Militare, Generale Umberto Rocca, un messaggio nel quale sottolinea la dedizione e il senso del dovere di Luigi Gorrini. Roma, 11 novembre 2014
In occasione di una recente visita al 18° Gruppo Caccia, Luigi Gorrini pronunciò queste parole che valgono quale suo testamento spirituale:
"Bruciammo la nostra giovinezza ma obbedimmo. I nostri caduti sono testimoni della nostra fede, della nostra passione, del nostro credo. A questo Gruppo, ho dato gli anni verdi della mia giovinezza che allora si viveva in un'altra dimensione. 212 combattimenti, 24 vittorie aeree individuali, 5 lanci con il paracadute. Cose che rifarei per un'Italia migliore".
Cordoglio per la scomparsa dell'Asso della Caccia Gorrini
Secolo d'Italia
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venerdì 31 ottobre 2014
Ferruccio Brandi: Presente!
Esattamente due mesi fa, il 31 agosto, moriva nella sua casa di Bolzano il Generale di Corpo d'Armata Ferruccio Brandi, Medaglia d'Oro al Valor Militare e reduce della battaglia di El Alamein. Il Generale Brandi era nato a Trieste il 9 novembre del 1920, alla fine degli anni '30 aveva iniziato la carriera nel Regio Esercito ottenendo nel 1940 la nomina a Sottotenente, in quello stesso anno effettuò il corso di paracadutismo alla scuola di Tarquinia e fu destinato al 187° Reggimento paracadutisti con l'incarico di comandante di plotone. Nel 1942 la Divisione Folgore, cui apparteneva il 187°, fu destinata al fronte dell'Africa settentrionale di rincalzo all'offensiva italo-tedesca, in questo periodo la Folgore fu coinvolta nell'epico scontro di El Alamein scrivendo pagine luminose di gloria. Lo stesso Brandi fu protagonista di quell'epopea partecipando, tra il 23 e il 25 ottobre del 1942, alla testa del III plotone della 6ª Compagnia "Grifo" del II Battaglione Paracadutisti, alle operazioni tra Deir El Munassib e Quota 105, meritando una Medaglia d'Ora al Valor Militare che gli fu conferita con la seguente motivazione:
« Comandante di plotone paracadutisti, attaccato da preponderanti forze corazzate, rincuorava ed incitava col suo eroico esempio i dipendenti a difendere a qualsiasi costo la posizione affidatagli. Sorpassato dai carri, raccolti i pochi superstiti, li guidava in furioso contrassalto, riuscendo a fare indietreggiare le fanterie avversarie seguite dai mezzi corazzati. Nuovamente attaccato da carri, con titanico valore, infliggeva ad essi gravi perdite ed, esaurite le munizioni anticarro, nello estremo tentativo di immobilizzarli, si lanciava contro uno di questi e con una bottiglia incendiaria lo metteva in fiamme. Nell'ardita impresa veniva colpito da raffica di mitragliatrice che gli distaccava la mandibola; dominando il dolore si ergeva fra i suoi uomini, e con la mandibola penzolante, orrendamente trasfigurato, con i gesti seguitava a dirigerli, e ad incitarli alla lotta, tra fondendo in essi il suo sublime eroismo.
Col suo stoicismo e col suo elevato spirito combattivo salvava la posizione aspramente contesa e, protraendo la resistenza per più ore, oltre le umane possibilità, s'imponeva all'ammirazione dello stesso avversario. I suoi paracadutisti, ammirati e orgogliosi, chiesero per lui la più alta ricompensa »
Col suo stoicismo e col suo elevato spirito combattivo salvava la posizione aspramente contesa e, protraendo la resistenza per più ore, oltre le umane possibilità, s'imponeva all'ammirazione dello stesso avversario. I suoi paracadutisti, ammirati e orgogliosi, chiesero per lui la più alta ricompensa »
Ferito e fatto prigioniero dagli inglesi, rientrerà in Patria alla fine della guerra, riprendendo il proprio posto nei ranghi dell'esercito. Nel 1963 ottiene il primo incarico di comando con la nomina a Capo di Stato Maggiore della Brigata Fanteria "Avellino", ma il suo indomito spirito di paracadutista brama di ricongiungersi ai "fanti alati", e infatti alla fine del '63 chiese ed ottenne l'incarico di Capo di Stato Maggiore della appena ricostituita Brigata Paracadutisti Folgore, negli anni successivi sarà dapprima comandante della Scuola Militare di Paracadutismo a Pisa e poi comandante del 1° Reggimento paracadutisti di Livorno. Dal 1969 al 1973 fu finalmente comandante della "sua" Brigata Folgore. Proprio durante il periodo di comando fu colpito dalla più grave e toccante tragedia occorsa alle forze armate italiana nel dopoguerra: il 9 novembre del 1971, durante un'esercitazione in ambito NATO, un aereo da trasporto con personale misto italiano e inglese si inabissò in mare a largo di Livorno, tra le secche della Meloria causando la morte di 52 militari. Lo stesso Brandi, che partecipava a quell'esercitazione, si prodigò sin dalle prime ore per prestare soccorso e rintracciare i corpi dei caduti. Dopo il congedo continuò a servire l'esercito ed i suoi soldati assumendo l'incarico di Commissario del Ministero della Difesa per le onoranze ai Caduti in guerra, negli ultimi anni si era completamente ritirato a vita privata tra gli affetti familiari, ma ancora nel 2012 era stato eletto Presidente Onorario dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia.
lunedì 20 ottobre 2014
Iniziata la missione MIADIT in Somalia
Dopo oltre cinquant'anni dalla fine del mandato italiano in Somalia le forze armate italiane sono ritornate nel paese del corno d'Africa per una missione addestrativa del nuovo corpo di polizia somala. Dai primi giorni del mese di ottobre 30 carabinieri hanno avviato il modulo addestrativo MIADIT, acronimo di Missione Addestrativa Italiana, per la formazione di circa 150 reclute della polizia somala, fra cui otto donne, al comando del colonnello Paolo Pelosi. Il periodo di formazione durerà tre mesi comprendendo, oltre all'addestramento militare, nozioni di diritto con particolare attenzione al diritto umanitario, diritto internazionale, procedura penale ed etica militare. L'obiettivo, stabilito da un accordo bilaterale italo-somalo sotto l'egida ONU, è quello di favorire la stabilita’ e la sicurezza della Somalia e dell’intera regione del Corno d’Africa, accrescendo le capacita’ nel settore della sicurezza e del controllo del territorio da parte delle forze di polizia somale.
Come già accaduto negli anni '50, è l'Arma dei Carabinieri ad aver fornito il personale militare della missione ed ad aver curato l'addestramento della polizia locale. L'Arma ha maturato una vasta esperienza nel settore negli ultimi anni con i buoni successi raggiunti con le missioni MIADIT a Gibuti nel 2012-2013 e MIADIT I nella primavera 2014 in Palestina. L'Italia inoltre ha fornito al personale somalo anche le uniformi, equipaggiando i partecipanti al corso delle vecchie tenute mimetiche italiane tipo "NATO-woodland".
lunedì 6 ottobre 2014
Calatafimi, la vera storia
Da qualche anno, a seguito dell'offensiva propagandistica neoborbonica e psudomeridionalistica, si è appuntata l'attenzione sugli eventi della spedizione dei Mille del 1860, rinverdendo così vecchie dicerie che attribuiscono la vittoria dei garibaldini in Sicilia alla sistematica corruzione degli ufficiali borbonici, in particolare ad essere stato "comprato" dagli unitaristi sarebbe stato il Generale Francesco Landi, comandante della colonna che affrontò Garibaldi a Calatafimi risultando sorprendentemente sconfitta. Si obbietta talvolta che le scarse e male armate forze garibaldine non avrebbero potuto avere la meglio degli agguerriti e ben più numerosi soldati duosiciliani senza il tradimento dei comandanti, ma le guerre non sono semplice esercizio di aritmetica ed è necessario tenere presenti una pluralità di fattori per raccontare correttamente la prima grande battaglia del risorgimento.
Nei giorni che seguirono lo sbarco di Marsala nel maggio 1860 un numero considerevole di volontari locali si unì alle forze garibaldine che ammontavano a circa 900 effettivi, la città di Palermo e le campagne circostanti erano infiammate da settimane dalla "rivolta della Gancia" e l'arrivo di Garibaldi era destinato proprio a sostenere il moto popolare. Bisogna precisare che la qualifica di "volontari" andrebbe contestualizzata tenendo presenti quelle che erano le dinamiche sociali della Sicilia del tempo, dominata da una feudale sudditanza di contadini e popolo minuto all'aristocrazia locale, come noterà da subito Giulio Cesare Abba, i cosiddetti volontari furono in realtà mezzadri e coloni che seguirono, per naturale obbedienza o istintivo senso di ribellione, i piccoli nobili locali divenuti liberali per antica avversione al potere centrale napoletano. La mobilitazione dei siciliani, sia pure con una superficiale adesione ideologica, fu dunque uno dei fattori determinanti per il prosieguo dell'impresa di Garibaldi, che potè contare, sin dal giorno 14 maggio, su una compagnia di rinforzo di circa 50 uomini al comando del barone Stefano Triolo di Sant'Anna, cui si aggiunsero nei due giorni successivi i volontari raccolti dal frate francescano Giovanni Pantaleo ed un nutrito reparto composto da circa 700 armati a piedi ed un drappello di cavalleria organizzati da Giuseppe Coppola, ex maggiore della Guardia Nazionale Siciliana del 1848. Gli insorti siciliani fornirono una forza complessiva difficilmente quantificabile con certezza ma che può ritenersi consistente in un numero che oscilla tra le 1000 e le 1500 unità, destinate a compiti di ricognizione e di scorta stante lo scarso armamento e l'inadeguata preparazione militare di cui disponevano. Benché si trattasse perlopiù di bande di guardiani armate con roncole, bastoni e qualche vecchio scoppio il loro numero rappresenta ugualmente un fattore importante sul campo di battaglia, anche soltanto per l'impatto visivo, al punto che il garibaldino Giuseppe Bandi descrisse così il loro raggrupparsi al termine dello scontro: "in lunghe file simili agli sciami di formiche, e in un batter d 'occhio ebbero invaso il campo". Proprio la errata valutazione dell'elemento popolare risulterà decisiva per lo svolgimento delle operazioni, infatti i rinforzi che il Luogotenente di Sicilia aveva richiesto giunsero con ampio ritardo, rendendosi disponibili a Palermo solo nella tarda serata del 14 maggio e rendendo così inattuabile il piano originario che ne prevedeva l'impiego a Marsala per il giorno precedente per operare un accerchiamento dei rivoltosi e dei garibaldini in cooperazione con la brigata del Landi.
La Colonna Landi era stata inviata in Sicilia allo scopo di sedare la rivolta e ricacciare a mare quelli che i dispacci borbonici definivano "filibustieri", gli ufficiali erano convinti di ritrovarsi di fronte poche bande di straccioni che potessero essere disperse con un paio di fucilate. In realtà le forze garibaldine erano molto più organizzate e meglio armate di quanto si crede comunemente, in esse era inquadrata una compagnia di Carabinieri Genovesi perfettamente addestrata ed equipaggiati con modernissimi fucili inglesi a canna rigata acquistati tramite una sottoscrizione popolare alla vigilia della spedizione. Questa compagnia sarà la prima, nella mattinata del 15 maggio, ad entrare a contatto di fuoco con le avanguardie borboniche del VII Battaglione Cacciatori del maggiore Michele Sforza, che saranno costretti alla ritirata dal tiro continuo, preciso ed inaspettato delle formazioni garibaldine, al contempo le squadre di "picciotti", denominate sul campo "Cacciatori dell'Etna", avevano iniziato la penetrazione nelle campagne saccheggiando anche i rifornimenti destinati alle truppe borboniche, che iniziarono a tempestare il comando di Landi di messaggi allarmati in cui si paventava il completo accerchiamento nelle campagne. Queste considerazioni convinceranno Landi che le sue truppe rischiassero seriamente di essere prese nel mezzo tra due ali nemiche tra Alcamo e Calatafimi e per questo motivo, dei circa 3000 effettivi al suo comando, inviò soltanto 2000 effettivi nella zona di Pianto Romano, dei quali i 600 della Colonna Sforza formavano il settore più avanzato, mentre oltre un migliaio di soldati furono lasciati a Calatafimi per prevenire eventuali attacchi sui fianchi o alle spalle dello schieramento. Tra l'una e le due del pomeriggio del 15 maggio iniziò lo scontro vero e proprio con il primo assalto garibaldino alle alture di Pianto Romano, le truppe borboniche sono travolte dall'impeto e costrette ad arretrare ma, riorganizzate sulla seconda altura, passano al contrattacco nel pomeriggio mettendo in crisi lo schieramento garibaldino malgrado quest'ultimo si fosse impossessato di diversi cannoni nei primi scontri della giornata. Fu a questo punto che chiamate a raccolta tutte le forze disponibili, compreso un buon numero di picciotti, Garibaldi ordinò un terzo disperato assalto (fu il momento in cui nacque la leggenda circa la frase "O si fa l'Italia o si muore!"), i rinforzi che lo Sforza aveva richiesto a Landi non giunsero mentre le colonne di picciotti di Coppola e Sant'Anna coprirono i fianchi dello schieramento garibaldino consentendo lo sfondamento nel settore centrale. Verso le 4 del pomeriggio i borbonici si ritirarono precipitosamente cedendo la vittoria a garibaldini e siciliani. Il Landi scrisse "La mia colonna à dovuto col fuoco di ritirata ripiegare sopra Calatafimi, dove mi trovo sulla difensiva, giacchè i ribelli in un numero immenso fanno mostra di volermi aggredire", è evidente che da parte borbonica vi fosse il fondato timore di essere assaliti e sopraffatti da una massa di nemici che, ben lungi dall'essere costituita da straccioni e pirati male armati, era militarmente efficiente e battagliera con alla testa ufficiali garibaldini che erano nella quasi totalità reduci delle campagne sudamericane e di quelle del del 1848. I timori del resto erano fondati, infatti il giorno 16 maggio, dopo il ritiro della Colonna Landi, le squadre di picciotti assaltarono Calatafimi e dilagarono nelle campagne di Partinico ed Alcamo. La battaglia era stata in realtà uno scontro secondario ma che divenne rapidamente epico nella fantasia popolare, alimentando l'aura mitica del genio militare di Garibaldi e l'entusiasmo dei siciliani che andarono ad ingrossare le fila delle camicie rosse fino alla presa di Palermo del 6 giugno 1860.
Dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie i centri di esuli borbonici a Roma iniziarono una costante opera di propaganda a difesa della deposta dinastia, trovando un validissimo aiuto nelle gerarchie cattoliche desiderose di combattere il "demonio garibaldino". Le prime notizie su un presunto tradimento del generale Landi furono diffuse da Civiltà Cattolica, il giornale dei gesuiti, e poi riprese varie volte con dovizia e spesso contraddittorietà di dettagli. Nella sostanza l'accusa mossa al generale duosiciliano era di aver accettato una lettera di credito del valore di 14.000 ducati, ma la cifra varia spesso a piacimento dell'autore di turno, da emissari di Garibaldi, o inglesi a seconda della versione, per ritirarsi senza ingaggiare battaglia spianando la via alle camicie rosse. Un anno dopo i fatti, nel 1861, avrebbe tentato di riscuotere o di far riscuotere da un servitore, come sempre le versioni sono molteplici, la somma prezzo del tradimento, scoprendo però che il documento era falso e morendone di infarto. Questa scempiaggine della più retriva propaganda clericale sarebbe stata smentita dallo stesso governo di Francesco II di Borbone, infatti alla fine del 1860, dopo qualche mese di confino sull'isola di Ischia fu giudicato da una Commissione Militare borbonica assieme al maggiore Sforza (il cui reparto fece registrare a Calatafimi il più elevato numero di diserzioni) e ad altri generali incaricati della difesa della Sicilia, risultarono tutti prosciolti da ogni addebito. Il figlio, Michele Landi, che in seguito, dopo aver valorosamente servito come ufficiale dell'esercito delle Due Sicilie, transiterà nell'Esercito Italiano, portò la calunnia all'attenzione dello stesso Garibaldi che con una lettera smentì ogni ipotesi di tradimento e non risparmiò parole d'elogio alla memoria dello sfortunato generale:
"Mio caro Landi, Ricordo di aver detto sul mio ordine del giorno di Calatafimi: che non avevo veduto ancora soldati scontrarsi e combattere con più valore; e le perdite da noi sostenute in quel combattimento lo provano bene. Circa ai quattordicimila ducati ricevuti dal vostro bravo genitore in quella circostanza, potete assicurare l'impudenti giomalisti che ne insultano la memoria, che 50 mila [lire] era il capitale che corredava la prima spedizione in Sicilia e che servirono ai bisogni di quella, non per comprare generali.
Sorte dei Tiranni... Il Re di Napoli doveva soccombere, ecco il motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella entrata su Palenno fece il suo dovere di soldato.
Dolente per quanto avete perduto, vogliate presentarni alla vostra famiglia come un amico, e credetemi con affetto, Vostro Giuseppe Garibaldi".
"Mio caro Landi, Ricordo di aver detto sul mio ordine del giorno di Calatafimi: che non avevo veduto ancora soldati scontrarsi e combattere con più valore; e le perdite da noi sostenute in quel combattimento lo provano bene. Circa ai quattordicimila ducati ricevuti dal vostro bravo genitore in quella circostanza, potete assicurare l'impudenti giomalisti che ne insultano la memoria, che 50 mila [lire] era il capitale che corredava la prima spedizione in Sicilia e che servirono ai bisogni di quella, non per comprare generali.
Sorte dei Tiranni... Il Re di Napoli doveva soccombere, ecco il motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella entrata su Palenno fece il suo dovere di soldato.
Dolente per quanto avete perduto, vogliate presentarni alla vostra famiglia come un amico, e credetemi con affetto, Vostro Giuseppe Garibaldi".
La battaglia di Calatafimi, come innumerevoli altre battaglie nella storia, fu decisa da una concatenazione di eventi che favorirono il contendente più svantaggiato, ma senza che vi fossero tradimenti o corruzioni di sorta, i soldati borbonici si batterono con onore e coraggio, i loro comandanti fecero altrettanto ma furono sopraffatti da un nuovo modo di fare la guerra, una modalità assai simile alla guerriglia, che essi non concepivano e soprattutto dalla errata valutazione politica delle conseguenze che l'ennesima rivolta popolare aveva scatenato in vaste parti della Sicilia.
bibliografia
- Carlo Cataldo, Calatafimi e Garibaldi, Sarograf, Alcamo 1990
- Marcello Caroti, Garibaldi il primo fascista, YouCan Print, gennaio 2013
- Epistolario di Giuseppe Garibaldi, voI. VI, 1861 - 1862, Ist. per la Storia del Ris. Ital., Roma 1983
- Guido Landi, Il Generale Francesco Landi, Rassegna storica del Risorgimento, 1960
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giovedì 10 luglio 2014
Flop-35
Arriva l'ennesimo colpo al discusso programma F-35, il super cacciabombardiere sviluppato dalla Lockheed Martin di cui l'Italia dovrebbe acquistare 90 esemplari nei prossimi anni. Dopo un grave incidente in volo avvenuto in Florida il 23 giugno il Pentagono ha deciso di interdire il volo a tutti gli F-35 della flotta americana in attesa di ulteriori verifiche sulla sicurezza. Fonti della difesa USA hanno attribuito l'ultimo incidente ad una perdita d'olio ad uno dei motori che avrebbe causato un improvviso incendio al sistema propulsivo, circostanza simile a quella che si era già verificata nel 2012 imponendo anche in quel caso un parziale stop ai voli. Le verifiche attuali riguarderanno tutti gli aerei in dotazione all'Air Force e alla Marina con principali indiziati i motori realizzati dalla ditta Pratt&Whitney che non garantirebbero sufficiente affidabilità. La notizia è rimbalzata in mezzo mondo alimentando i dubbi di quanti vedono nel più costoso sistema d'arma mai progettato un inutile spreco di risorse in tempi in cui, specie per paesi come l'Italia, le possibilità d'impiego strategico di un areo simile sono molto limitate. Proprio in quest'ottica il ministro degli Esteri Mogherini ha ribadito che, nel quadro degli ammodernamenti degli equipaggiamenti militari 'intesa con gli alleati, l'acquisto del supercaccia è sotto revisione in attesa della pubblicazione del "Libro bianco" del Ministero della Difesa sulle necessità delle forze armate.
In realtà l'intero progetto presenta elevate criticità che ne mettono in dubbio l'effettiva utilità. L'F-35 Lightening II, denominato anche Joint strike fighter, è un programma lanciato dagli Stati Uniti insieme ad altri otto paesi, tra cui l’Italia, all’inizio degli anni novanta per costruire F-35, cacciabombardieri ipertecnologici di quinta generazione, si tratta del programma militare più costoso di tutti i tempi che prevedeva, nella sua versione originaria, la realizzazione di 3.173 velivoli da parte della Lockheed Martin per una spesa complessiva di 396 miliardi di dollari, ma tenuto conto del lievitare dei costi in corso d'opera e delle spese per la manutenzione ordinaria degli aeromobili è difficile quantificare in maniera esatta il costo definitivo dell’intero progetto. Innanzitutto non va trascurato il fattore cronologico che ha inciso sulla nascita e lo sviluppo del mezzo, quando è stato concepito l'F-35 avrebbe dovuto rappresentare "l'aereo finale", il modello definitivo di caccia multiruolo che, dopo la fine della Guerra Fredda, non avrebbe avuto concorrenti in una progressiva unificazione sotto l'ombrello NATO degli alleati europei nello operazioni di polizia internazionale a guida americana, le uniche operazioni belliche che apparivano all'epoca all'orizzonte ed in cui il ruolo di predominio dell'aviazione sarebbe stato determinante come già era stato dimostrato dalla prima Guerra del Golfo. In realtà non si considerò il ruolo, sia pure ancora oggi debole e claudicante, dell'integrazione europea anche in ambito delle politiche di esteri e difesa che avrebbe portato ad una biforcazione degli interessi e delle politiche di difesa all'interno dello stesso ambito del Patto Atlantico. Non a caso negli stessi anni vide la luce il progetto EFA che tra il 2003 e il 2005 ha condotto alla produzione dell'Eurofighter Typhoon, caccia multiruolo concorrente degli F-35 che in breve è diventato l'aereo di punta delle aeronautiche militari del vecchio continente soppiantando, anche seno all'Aeronautica Militare Italiana, i vecchi Tornado e gli F-16. Inoltre, l'ottimismo per una ritrovata ampia crescita economica mondiale dopo la fine della contrapposizione tra i blocchi e la certezza per i risparmi che si sarebbero realizzati con il ridimensionamento degli eserciti permanenti, convinsero circa la sostenibilità economica del faraonico progetto, ma la solidità economica degli stati partner del progetto è stata falcidiata dalle ripetute crisi degli ultimi anni e, in tempi di indignados, occupy e grillini, molti governi hanno preferito non passare per feroci e insensibili guerrafondai ed hanno sforbiciato i bilanci della difesa. Ma il progetto ha manifestato negli anni anche non pochi inconvenienti di carattere tecnico, l'aereo ha mostrato una intrinseca fragilità dovuta all'avvio della produzione in serie prima dei collaudi finali sulle versioni di prototipo e dunque difetti ed esigenze tecniche sono emersi solo nella fase dei successivi collaudi rendendo necessarie modifiche e riprogettazioni che hanno fatto lievitare i costi e ritardato ulteriormente una produzione già rallentata che ha accumulato già otto anni di ritardo sulla tabella prevista, a fronte di un invio in servizio previsto per il 2000, secondo il Ministero della Difesa britannico gli esemplari delle versioni definitive saranno disponibili solo nel 2018. Anche in America il Government Accountability Office, l'autorità federale che vigila su appalti e conti pubblici degli Stati Uniti, ha denunciato in un rapporto datato 2012 ritardi, errori tecnici e costi esorbitanti del progetto facendo nascere un acceso dibattito interno sulla convenienza del programma malgrado le rassicurazioni della Lockheed circa la correzione degli inconvenienti e l'aumento dei test pre-consegna sui velivoli.
L'Italia è partner di secondo livello del progetto Joint strike fighter, avendo avviato nel 1994 la fase di valutazione tecnologica arrivando poi nel 1998 a sottoscrivere un accordo commerciale che prevede il finanziamento di circa il 5% sul totale del progetto e la costruzione e l'assemblaggio in Italia di parte degli aerei destinati al nostro paese ed al mercato europeo, affidate ad un consorzio di imprese capeggiate da Alenia-Aermacchi del gruppo Finmeccanica. La previsione di spesa si aggira attorno ai 680 milioni di euro per un totale di 131 e le intenzioni sono di incrementare in tal modo l'occupazione assumendo un numero sempre maggiore di addetti con il progredire delle fasi del progetto che negli anni è stato confermato da tutti i governi che si sono succeduti di qualunque colore (anche quelli con ministri di Rifondazione e con componenti del Partito Radicale). Ma tali previsioni non sono più attuali poiché nel 2012 il ministro della Difesa De Paola ha ridotto a 90 la commessa italiana e si è avviato un balletto di cifre sul numero di operai necessari alla costruzione: per Alenia sono da assumerne tra 1200 e 1500 per l'Aeronautica ne basterebbero 700. Fino ad ora lo stabilimento di Cameri, in provincia di Novara, ove è concentrato il meglio della tecnologia aerospaziale italiana ha prodotto ali e componenti per 15 aerei ma la produzione va a rilento e i costi lievitano: a fronte di un costo previsto di 61 milioni di euro per aereo oggi si è arrivati a 107 milioni per la versione avanzata, mentre le previsioni sui costi di manutenzione ipotizzano un amento del 20% spalmato su dieci anni. Su tutto questo incombe la sterzata del governo Renzi che, da un lato ha necessità di ingraziarsi gli alleati statunitensi e dall'altro non deve scontentare i propri sostenitori in patria, e così alle parole attendiste della Mogherini fa eco il ministro della Difesa Roberta Pinotti nel sottolineare che “il problema sono gli sprechi e non gli F-35”, lasciando intendere che la parola definitiva questione resta rimandata a tempi successivi e che, comunque, non si prevede al momento uno sganciamento dell'Italia dal progetto di acquisizione che, molto probabilmente, sarà ulteriormente ridimensionato ma non abbandonato.
Resta da chiedersi cosa dovrebbe farsene un paese dalle ridotte attività militari internazionali come l'Italia, che sia in ambito ONU che in ambito NATO concorre prevalentemente con le componenti terresti e nautiche oltre alla messa a disposizione delle basi aeree, di un cacciabombardiere ipertecnologico e costosissimo dalla ridotta affidabilità per di più in numero limitato a fronte dello sviluppo di progetti altrettanto validi, ed in parte già operativi, a costi assai più contenuti e dalle prestazioni più rispondenti alle esigenza nazionali.
venerdì 9 maggio 2014
Inaugurato il Civico Museo di Storia Militare di Aversa
E' stato inaugurato lo scorso 26 aprile il Civico Museo di Storia Militare di Aversa, un nuovo polo di storia che raccoglie le memorie e le testimonianze degli uomini dell'agro aversano impegnati sui campi di battaglia di tutte le epoche. A tagliare il nastro il sindaco di Aversa Giuseppe Sagliocco alla presenza dei rappresentanti dell'associazione Gioventù Aversana che gestisce il museo e di numerose autorità civili e militari. Tra gli intervenuti il Generale dell'Aeronautica Militare Giovanni Palermo, il Colonnello Veniero Santoro comandante della scuola specialisti dell'Aeronautica Mlitare di Caserta, il Generale di Brigata Gaetano Carli pronipote della Medaglia d'Oro Giuseppe Carli, il Generale di Corpo d'Armata Domenico Cagnazzo Ispettore Regionale dell'Associazione Naz. Carabinieri, il Comandante Luigi Mosca della Polizia Penitenziaria dell'OPG "Saporito" di Aversa, il sindaco di Cesa Cesario Liguori, la professoressa Giuliana Andreozzi dell'Associazione Naz. Mutilati ed Invalidi di Guerra, il Maresciallo Giuliano Brusciano della sezione provinciale dell'Associazione del Fante.
“Il museo – ha sottolineato il primo cittadino – si propone di essere non solo una semplice esposizione di reperti ma anche un’aggiornata narrazione storica, in grado di coniugare la storia locale con gli venti e le problematiche generali dei devastanti conflitti bellici che hanno caratterizzato il secolo scorso, proponendo ai visitatori suggestioni e ambientazioni capaci di un’immediata riflessione sul concetto di guerra”.
Il curatore dell'esposizione museale, Salvatore de Chiara, ha poi guidato i presenti alla scoperta delle collezioni in mostra sottolineando come "questo museo vuole essere una risorsa per il territorio" e che, nel racconto della storia militare, "siano per noi più importanti i volti e le microstorie prima ancora delle armi". Il museo sarà aperto al pubblico il martedì ed il giovedì pomeriggio dalle 16.00 alle 19.30 ed il sabato dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00.
Morgagni
martedì 25 marzo 2014
La legione dimenticata delle Argonne
In una recente puntata de "Il Tempo e la Storia", il programma di divulgazione storica condotto da Massimo Bernardini, dedicata a Curzio Malaparte, lo storico Francesco Perfetti nel commentare il passato di volontario garibaldino nel 1914 dello scrittore toscano liquida in due parole l'esperienza dei volontari garibaldini sul fronte francese affermando che "non svolgeranno di fatto alcuna operazione bellica" e che nello stesso stato di servizio di Malaparte tale periodo non risulta. Perfetti evidentemente ha poca dimestichezza con la burocrazia militare italiana ed ignora che gli appartenenti ai volontari garibaldini, essendo inquadrati nelle forze armate francesi, non avevano diritto alla trascrizione matricolare del servizio prestato per una nazione straniera, ancorché in seguito amica. Al di là delle minuzie burocratiche è però doveroso rendere onore alla memoria di un formidabile manipolo di combattenti che, al contrario di quanto sostiene con superficialità Perfetti, ebbe una rilevanza bellica non secondaria.
La Legione Garibaldina fu voluta da Peppino Garibaldi, figlio maggiore di Ricciotti, che riunì i fratelli Bruno, Ezio, Costante, Sante, Ricciotti Jr. e Menotti Jr e nell'autunno del 1914, dopo varie resistenze, riuscì a farsiaffidare dalle autorità francesi il comando di un reparto costituito in massima parte da italiani residenti in Francia e volontari giunti dall'Italia. Sin da subito emersero notevoli difficoltà di ordine politico, in considerazione dell'appartenenza dei volontari ad una nazione neutrale formalmente alleata della Germania e che peraltro era scossa da una crescente divisione tra neutralisti ed interventisti. Il numero di aspiranti reclute provenienti dall'Italia avrebbe consentito la formazione di una intera divisione volontaria ma, per questioni di opportunità, si scelse di limitare l'organico della Legione a soli 3 battaglioni che andarono a formare il IV Reggimento di Marcia inquadrato nella Legione Straniera, il comando fu assunto dallo stesso Peppino Garibaldi, affiancato da ufficiali francesi, col grado di Tenente Colonnello. L'organico compredeva circa 25000 effettivi, con 53 ufficiali, 155 sott'ufficiali e oltre 2000 militari di truppa, tutti equipaggiati e rivestiti di uniformi francesi sotto le quali però indossarono la tradizionale camicia rossa. La Legione fu impiegata quale reparto d'assalto ed ebbe il suo battesimo del fuoco il 21 dicembre 1914 nelle Argonne tra Belle Etoile e Bois de Bolante, dove pochi giorni dopo, il 26 dicembre, cadeva sul campo Bruno Garibaldi. Dopo un rallentamento dei combattimenti nel periodo natalizio, il 5 gennaio del 1915, riprese furiosa la seconda battaglia delle Argonne nella quale la Legione si distinse catturando un ricco bottino di armi e prigionieri. Proprio nelle prime ore di quella battaglia troverà la morte anche Costante Garibaldi. Dalla fine di gennaio, per le forti pressioni da parte del governo italiano, ansioso di non compromettere i rapporti con gli austro-tedeschi e preoccupato dalla maggioranza pacifista nel paese, il IV Régiment de Marche non fu più impiegato in prima linea e in seguito ai ripetuti interventi del comandante Peppino Garibaldi fu ufficialmente sciolto il 5 marzo 1915, in concomitanza con l'ondata di manifestazioni interventiste che si accendevano in quel periodo in Italia. Molti ex volontari si riarruoleranno nella neostituita Brigata Alpi del Regio Esercito combattendo il prosieguo della guerra al comando dei fratelli Garibaldi.
Il primo caduto fu il tenente Gregorio Trombetta, ventiseienne milanese colpito a dal fuoco amico dell'artiglieria pesante francese al Bois de Bollante il 26 dicembre 1914, in totale la Legione ebbe, in quattro mesi di scontri, 566 caduti, in gran parte sepolti nel sacrario di Bligny al termine della guerra mentre le salme dei fratelli Bruno e Costante sono state traslate al Verano. Per la cronaca, secondo accreditate ricostruzioni, l'allora sedicenne Kurt Erich Suckert (Malaparte) non prese mai parte ai combattimenti sul fronte francese ma si arruolò tra i garibaldini a Parigi nel periodo in cui la Legione fu forzatamente tenuta lontano dai combattimenti.
lunedì 3 marzo 2014
Montuori al Comando Logistico Esercito
Dal 28 febbraio il Generale di Corpo d'Armata Alessandro Montuori è il nuovo comandante logistico dell'esercito italiano, la cerimonia di avvicendamento con il suo predecessore, Generale Cd'A Mario Roggio, si è svolta presso il Centro Polifunzionale di Sperimentazione dell'esercito. Montuori, nato a Portici, è ufficiale dei bersaglieri con una lunga carriera alle spalle e, prima dell'attuale incarico, gli è stato affidato dal 2013 il Comando Formazione e Scuole d'Applicazione di Torino. Ha acquisto una vasta esperienza anche nelle missioni all'estero, in particolare nel corso delle operazioni "Iraqi Freedom" e "Antica Babilonia" in Iraq meritando la Croce d'oro al merito dell'Esercito, è insignito, tra le altre decorazioni, del grado di Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica.
martedì 4 febbraio 2014
Brava gente o bravi imbecilli?
"Italiano brava gente", film del 1965 diretto da Giuseppe De Santis, è uno dei più schifosi e inguardabili prodotti della nostra cinematografia sulle vicende della seconda guerra mondiale.Girato nei luoghi stessi in cui si verificarono gli eventi con una certa larghezza di mezzi fu una coproduzione italo-sovietica e questo spiega perchè il film sia in gran parte un prodotto di propaganda da esportazione.
La storiella comincia (e finisce) sempre nello stesso modo: con gli allegri ed ingenui ragazzi italiani di tutte le regioni (evidentemente nessuno ha mai spiegato ai cineasti che il reclutamento avveniva perlopiù su base territoriale e si tentava di mantenere una certa omogeneità nei reparti) che vanno alla guerra canterini e sorridenti convinti che tutto finirà presto. Purtroppo per loro tra le prepotenze dei tedeschi sanguinari, gli orrori del combattimento e l'eroismo dei russi, si avvieranno presto alla disillusione attraverso un doloroso percorso di rassegnazione che li porterà alla morte nel turbine della guerra. Gli sceneggiatori sono andati a spigolare situazioni e personaggi da varie fonti, buona parte delle atmosfere è sicuramente tratta da "100.000 Gavette di ghiaccio" di Giulio Badeschi, all'epoca appena uscito, ma vi sono stati trasfusi anche pezzi tratti da la "La guerra d'Albania" di Giancarlo Fusco, un evergreen del nostro cinema di guerra che ha ispirato anche "Scemo di Guerra" (ah, i bei tempi in cui Beppe Grillo era solo un comico!) e "Le rose del deserto", confezionando un bel polpettone di scempiaggini e luoghi comuni. Eppure dieci anni prima c'era stato l'ottimo "Carica eroica" che, pur incedendo in qualche banalità di maniera, era stato un ottimo prodotto sulla Campagna di Russia, invece in questo caso, probabilmente incalzati dai commissari politici del coproduttore sovietico, gli autori italiani hanno dato libero sfogo alle idee peggiori. I personaggi sono tutti perfettamente stereotipati: il comandante italiano è un colonnello rassegnato e ligio al dovere ma giusto e comprensivo, tra i soldati c'è il romanaccio di buon cuore, il pugliese antifascista, il ragazzino innamorato (un emiliano che pare il sosia di Gianni Morandi) e il sergente napoletano vessatore e carogna. Gli ufficiali tedeschi sono tutti tronfi, sadici ed arroganti, mentre i popolani russi tutti fieri e coraggiosi come i loro soldati e loro i partigiani, gigantoni con la faccia da bravi ragazzi. Ma l'autentico capolavoro di sciocchezze si realizza con la caratterizzazione degli uomini dei Battaglioni delle Camicie Nere: De Santis è il primo, e forse l'unico, a rappresentarli in un film di guerra e lo fa dando di loro la peggiore immagine possibile. I fascisti sono tutti fanatici, ladri, vigliacchi e finanche stupratori, a partire dal loro comandante dal ridicolo nome di Ferro Maria Ferri (personaggio tratto da un altro racconticino di Giancarlo Fusco, scrittore godereccio finito sotto la censura fascista che nel dopoguerra si è vendicato raccontando il regime nel modo più caricaturale e carognesco possibile), un borbottone vigliacco e violento che addirittura finge di essere un mutilato per incutere rispetto e che si inventerà un reparto speciale a cui appioppa il nome cretinissimo di "Superarditi", evidentemente riferimento ai Battaglioni M della Milizia, che si addestrano tutto il tempo tra cognac e cioccolata per rimanere poi comodamente nelle retrovie (peccato che nessuno abbia avvisato la produzione che la Milizia ha perso in Russia oltre il 60% dei suoi effettivi e che tra i comandanti di reparto la mortalità fu del 90% addirittura!). Fa la sua comparsata anche Peter Falk, il futuro tenente Colombo è qui un tenentino medico super-raccomandato che in una situazione ai limiti del paradossale muore da eroe, l'accento da gagà napoletano e le idiote battute di spirito a mitraglia invitano lo spettatore a prenderlo a schiaffi dopo soli tre minuti.
Come film di propaganda sovietica forse potrebbe anche andare, se non fosse che all'epoca fu strombazzata la veridicità dei luoghi e delle situazioni e che in apertura di pellicola si rammenti la "incontestabilità" dei fatti, che invece furono subito contestati da colui il quale aveva ispirato parte delle vicende narrate, il colonnello Epifanio Chiaramonti, eroe dell'ARMIR, pluridecorato al valore nonchè della Croce di Ferro tedesca, che rifiutò nettamente la ricostruzione fattane. C'è forse un unico pregio nella visione del film, esso è una sorta di compendio della rappresentazione bellica italiana, vi si ritrovano tutti gli elementi che poi saranno usati dalle produzioni successive sino alle fiction odierne, in qualche modo è stato un apripista e, una volta visto, si può star certi di essere pronti a qualsiasi bestialità successiva, visto uno visti tutti! Si fornisce così la versione da sussidiario che poi è stata costantemente ripetuta dalla cinematografia, dalla letteratura e dalla storiografia ufficiale, versione secondo la quale gli italiani in guerra furono poveri cristi rassegnati al destino cui li avevano costretti pochi fascisti esaltati e vigliacchi, buoni padri di famiglia con la lacrimuccia facile e lo spirito da compagni di paese che non avevano alcuna intenzione di combattere e pochissime abilità guerriere, brava gente illusa ed impreparata, bravi imbecilli insomma. Un siffatto racconto è al contempo rassicurante ed autoassolutorio ed ha provocato guasti ormai irreparabili nella coscienza e nella percezione collettiva.
venerdì 17 gennaio 2014
In morte di Hiroo Onoda
Si è arreso soltanto alla morte il tenente Hiroo Onoda, il più famoso dei "soldati fantasma" giapponesi, uno degli irriducibili combattenti che per anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, continuarono a combattere contro gli americani nelle fitte foreste dell'estremo oriente. Si è spento il 16 gennaio, aveva 91 anni e da tempo si era ritirato a vita privata in Giappone dopo aver passato gli anni successivi al suo rimpatrio a raccontare la sua storia in diverse pubblicazioni e dopo aver vissuto per un periodo in sud America.
Onoda era nato nel 1922 e, uscito col grado di tenente dalla scuola militare di Nakano, era stato inviato nel 1944 sull'isola di Lubang nelle Filippine per coordinare le forze già presenti nella guerriglia volta a ritardare l'avanzata statunitense, con l'ordine tassativo di non arrendersi. Nel settembre del 1945, rimasto con soli tre uomini, decise di non arrendersi considerando propaganda nemica l'ordine di resa diffuso dalle autorità giapponesi, continuando le azioni di guerriglia contro le popolazioni e la polizia locali. Risultò vano qualunque tentativo di rintracciare la sua unità al punto che Onoda venne dichiarato morto alla fine degli anni '50 e soltanto nel 1974, quando ormai era rimasto solo dopo la morte o la resa degli altri compagni, fu possibile stabilire un contatto con l'indomito combattente convincendolo alla resa grazie all'intervento del suo diretto superiore del periodo bellico, il maggiore Yoshimi Taniguchi. Al momento della resa innanzi al presidente filippino Marcos il tenente Onoda si presentò con lo sguardo fiero indossando ancora il proprio berretto d'ordinanza e l'equipaggiamento da campagna e con al fianco la spada da ufficiale, fu celebrato in patria come un eroe ed è assurto a simbolo popolare della tenacia della lotta e del Bushido, il codice d'onore nipponico che ritiene altamente disonorevole qualunque forma di resa.
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