Dopo il profluvio di pubblicazioni, più o meno serie, che nell’ultimo decennio hanno affrontato la questione risorgimentale presentandola, spesso, come guerra di conquista del nord sul meridione, alla quale sarebbe seguita la resistenza “popolare” incarnata dal brigantaggio, è arrivato alle stampe uno studio rigoroso del prof. Carmine Pinto, ordinario di storia dell’Università di Salerno, “La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti. 1860-1870”, edito da Laterza. Il libro tende a smontare certe recenti narrazioni semplicistiche che attribuiscono agli eventi del XIX secolo strumenti di lettura del presente, costruendo un mito fittizio basato sulla dinamica colonizzatore/colonizzato.
L’analisi
di Pinto parte dall’osservazione delle vicende militari che portarono al crollo
della monarchia borbonica e poi allo svilupparsi del fenomeno dell’aggressività
dei briganti, per incentrare l’attenzione sulle motivazioni politiche e
culturali che vi erano sottese. Non si trattò unicamente di un conflitto locale,
ma interessò protagonisti di tutta Italia e provenienti da più parti d’Europa,
vedendo coinvolti interessi che superavano i confini del neonato stato
unitario. Ma fu soprattutto conflitto tra due visioni e due realtà della
società meridionale: meridionali erano i capi briganti e la stragrande
maggioranza dei componenti delle bande, meridionali erano gran parte delle
vittime e gli effettivi della Guardia Nazionale che sostennero gli scontri
maggiori, entrambi gli schieramenti versarono un elevato tributo di sangue.
Pinto analizza anche il cambio di paradigma sociopolitico che determina un
esito completamente diverso rispetto ai tentativi rivoluzionari precedenti: la
parte borghese e liberale della popolazione del Regno delle Due Sicilie era
finalmente riuscita a costruire un blocco sociale dalla fisionomia definita, in
grado di sostenere le proprie rivendicazioni in opposizione al governo
borbonico e di raccogliere una fetta importante di consenso, specie nei centri
urbani, per converso, il blocco di potere assolutista della monarchia dei
Borbone si era rivelato incapace di costruire un apparato di potere al quale
appoggiarsi, e che infatti implose immediatamente sotto l’urto unitario, ed
aveva sottovalutato l’importanza del consenso popolare nello sviluppo della
emergente realtà degli stati europei. È in parte una guerra civile, che vede
contrapposti ceti emergenti convinti della necessità di agganciare lo spirito
nazionale del nascente Regno d’Italia e classi dominanti legate a sistemi di
potere tradizionali, ansiose di conservare il proprio ruolo in via di erosione.
Nello scontro tra questi gruppi si sviluppano le dinamiche che vedono coinvolti
i ceti popolari, con una atavica questione sociale irrisolta che resta sullo
sfondo e che, di lì a qualche anno, si trasformerà nella questione meridionale.
Il libro prova a dare anche una lettura della formazione della nuova élite del meridione, in grado di incarnare le caratteristiche della modernità politica, che fonde interessi, ambizione e consenso, tracciando la via dei processi successivi all’Unità nazionale. È un libro che, per la novità e la vastità dei materiali e dei documenti d’archivio usati, oltre che per le approfondite ricerche che lo sostengono, presenta una innovativa prospettiva sulla guerra al brigantaggio e sulle interpretazioni che, fino a oggi, vi erano state attribuite. Il volume, che si è aggiudicato numerosi premi di storia e saggistica, si compone di 512 pagine ed è edito da Laterza.
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