domenica 20 dicembre 2020

Pink and green: The Return

L'esercito americano ritorna all'antico e riveste i propri soldati con la storica uniforme che ha caratterizzato gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Dopo una sperimentazione durata diversi anni, e fortemente voluta dagli ambienti dell'U.S. Army, in questi ultimi mesi è iniziata la distribuzione della nuova tenuta denominata Army Green Service Uniform, che ricalca lo stile di quella introdotta alla fine degli anni '20 per gli ufficiali e che che prese il nome colloquiale di "pink and green", rosa e verde, dalla sfumatura particolare dei pantaloni che, in teoria, avrebbero dovuto essere in color khaki chiaro ma che, in realtà, assunsero una tonalità tendente al rosato.

L'uniforme fu iconica degli anni della guerra, composta da una giubba di color verde brunastro, con bottoni dorati e revers a lancia, abbinata ad un paio di pantaloni lunghi in khaki chiaro, fu la tenuta con la quale è rappresentato "Ike" Eisenhower in numerose immagini, così come fu l'uniforme immortalata in decine di pellicole sull'epica USA del secondo conflitto mondiale. Pensata come uniforme di servizio per i soli ufficiali, in tessuto di lana pettinato cavalry twill, si distingueva nettamente dalle tenute in dotazione alla truppa, che vestivano una combinazione di giacca e pantaloni entrambi color Army green, di qualità decisamente inferiore e dalla rifiniture assai più semplificate. Restò in uso ufficialmente fino al 1958, anche se già dal 1948 ne fu progressivamente limitato l'uso, tentando di ridurre le differenze visive tra ufficiali e truppa. Per decenni fu sostituita dalla Army green, unica per tutta il personale con piccole differenze, fino alla rivoluzione del 2010, quando fu introdotta la Army Blue Service Uniform, una combinazione di due tonalità di blu che riprendeva il colore delle tenute americane della guerra d'indipendenza e dell'esercito unionista. 

Ufficiali in Pink and Green durante la Seconda Guerra Mondiale

La nuova Pink and Green è stata adottata come con un chiaro riferimento alla "great generation" dell'esercito americano, quella che fece la Seconda Guerra Mondiale e gettò le basi dell'orgoglio USA per le proprie forze armate nel corso dell'ultimo secolo, un modo per rivendicarne l'eredità e, al contempo, celebrare gli uomini e le donne dell'esercito dopo un ventennio che essi sono divenuti nuovamente centrali nella politica e nella società americana.  L'innovazione che sa di antico è stato fortemente voluta proprio dagli ambienti dell'U.S. Army, intenzionati a recuperare il proprio patrimonio tradizionale ed a manifestare anche nell'immediatezza dell'aspetto la propria appartenenza, sempre su un sottile filo di rivalità con il corpo dei Marines. 

Il Generale Dwight D. Eisenhower 

Le uniformi di servizio saranno in prima distribuzione fino al 2028, data entro la quale si prevede di terminare la sostituzione delle tenute attualmente in uso, riservando la Army Blue unicamente alle occasioni cerimoniali. La giubba si caratterizza per le quattro tasche pettorali che nel taglio delle patte, così come il cinturino di stoffa in vita,  richiamano l'originale dell'anteguerra, dalla quale la differenziano i bottoni bruniti, la mancanza del taglio a quarti anteriore e le dimensioni più contenute dei baveri, per le donne sarà disponibile in una doppia versione sia con gonna che con i pantaloni, sempre color khaki.      


 

mercoledì 9 dicembre 2020

Carmine Pinto narra la guerra al brigantaggio

 


Dopo il profluvio di pubblicazioni, più o meno serie, che nell’ultimo decennio hanno affrontato la questione risorgimentale presentandola, spesso, come guerra di conquista del nord sul meridione, alla quale sarebbe seguita la resistenza “popolare” incarnata dal brigantaggio, è arrivato alle stampe uno studio rigoroso del prof. Carmine Pinto, ordinario di storia dell’Università di Salerno, “La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti. 1860-1870”, edito da Laterza. Il libro tende a smontare certe recenti narrazioni semplicistiche che attribuiscono agli eventi del XIX secolo strumenti di lettura del presente, costruendo un mito fittizio basato sulla dinamica colonizzatore/colonizzato. 

L’analisi di Pinto parte dall’osservazione delle vicende militari che portarono al crollo della monarchia borbonica e poi allo svilupparsi del fenomeno dell’aggressività dei briganti, per incentrare l’attenzione sulle motivazioni politiche e culturali che vi erano sottese. Non si trattò unicamente di un conflitto locale, ma interessò protagonisti di tutta Italia e provenienti da più parti d’Europa, vedendo coinvolti interessi che superavano i confini del neonato stato unitario. Ma fu soprattutto conflitto tra due visioni e due realtà della società meridionale: meridionali erano i capi briganti e la stragrande maggioranza dei componenti delle bande, meridionali erano gran parte delle vittime e gli effettivi della Guardia Nazionale che sostennero gli scontri maggiori, entrambi gli schieramenti versarono un elevato tributo di sangue. Pinto analizza anche il cambio di paradigma sociopolitico che determina un esito completamente diverso rispetto ai tentativi rivoluzionari precedenti: la parte borghese e liberale della popolazione del Regno delle Due Sicilie era finalmente riuscita a costruire un blocco sociale dalla fisionomia definita, in grado di sostenere le proprie rivendicazioni in opposizione al governo borbonico e di raccogliere una fetta importante di consenso, specie nei centri urbani, per converso, il blocco di potere assolutista della monarchia dei Borbone si era rivelato incapace di costruire un apparato di potere al quale appoggiarsi, e che infatti implose immediatamente sotto l’urto unitario, ed aveva sottovalutato l’importanza del consenso popolare nello sviluppo della emergente realtà degli stati europei. È in parte una guerra civile, che vede contrapposti ceti emergenti convinti della necessità di agganciare lo spirito nazionale del nascente Regno d’Italia e classi dominanti legate a sistemi di potere tradizionali, ansiose di conservare il proprio ruolo in via di erosione. Nello scontro tra questi gruppi si sviluppano le dinamiche che vedono coinvolti i ceti popolari, con una atavica questione sociale irrisolta che resta sullo sfondo e che, di lì a qualche anno, si trasformerà nella questione meridionale.    

Il libro prova a dare anche una lettura della formazione della nuova élite del meridione, in grado di incarnare le caratteristiche della modernità politica, che fonde interessi, ambizione e consenso, tracciando la via dei processi successivi all’Unità nazionale. È un libro che, per la novità e la vastità dei materiali e dei documenti d’archivio usati, oltre che per le approfondite ricerche che lo sostengono, presenta una innovativa prospettiva sulla guerra al brigantaggio e sulle interpretazioni che, fino a oggi, vi erano state attribuite. Il volume, che si è aggiudicato numerosi premi di storia e saggistica, si compone di 512 pagine ed è edito da Laterza. 

venerdì 30 ottobre 2020

“Scarpe di cartone" mito duro a morire


Troppo spesso si ritorna a sentire la storia delle famigerate “scarpe di cartone”, con le quali, secondo una diffusa convinzione, i soldati italiani avrebbero affrontato la campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, andando incontro ad esiti terribili per via delle calzature assolutamente inadeguate, addirittura con la suola realizzata in cartone pressato. In realtà questa è essenzialmente solo una leggenda storica.

Scarponi con chiodatura leggera per armi a piedi

soldati italiani combatterono nel secondo conflitto mondiale con calzature di buona qualità, che, almeno nella loro configurazione ottimale, non potevano certo considerarsi pericolose per i piedi dei soldati. Come modello standard era previsto l’uso dello scarpone adottato nel 1937, che aveva un gambaletto più basso dei precedenti, con la tomaia realizzata in cuoio ingrassato e la suola in legno e cuoio, rinforzata da una chiodatura leggera per le armi a piedi e a cavallo, un diverso modello, con chiodatura da montagna, era in uso alle truppe alpine. Questo particolare tipo di calzatura era stato concepito tenendo presente il clima dell’Europa occidentale e, come ipotesi di impiego, il terreno dell’arco alpino italiano. Indubbiamente, quando questi scarponi si trovarono ad affrontare l’inverno russo, con i suoi meno quaranta gradi, e le particolari condizioni ambientali del fronte orientale, mostrarono dei limiti. In modo particolare, gravi effetti derivarono dalla mancanza di approvvigionamenti e, dunque, dalla capacità di sostituire efficacemente le dotazioni usurate. L’Esercito Italiano era carente di automezzi, rendendo difficile rifornire rapidamente i reparti in prima linea, specie sulle enormi distanze del fronte russo. Le calzature assegnate ai nostri soldati, seppur di buona qualità, utilizzate nelle lunghe ed estenuanti marce a piedi, nel fango e nella neve del fronte orientale, erano sottoposte ad una inevitabile usura, rendendo necessaria la loro sostituzione entro pochi mesi. L’Intendenza Militare, però, pur avendo i propri depositi nelle adiacenze del fronte, era spesso impossibilitata ad utilizzare i mezzi adeguati per rifornire i reparti. Non è secondario notare come questo tipo di problematica fu assai meno sentita nel 1941, all’epoca in cui era impiegato il CSIRCorpo di Spedizione Italiano in Russia, che aveva una consistenza numerica piuttosto contenuta e che occupava una porzione ridotta del fronte.  I problemi logistici maggiori iniziarono dal 1942, con la nascita dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, una grande unità di notevoli dimensioni composta da una grande moltitudine di soldati, alla quale era assegnato un lungo tratto di fronte, pertanto le linee di comunicazione si allungarono ed il numero di militari da dover rifornire aumentò in modo esponenziale. Un aumento che l’Intendenza non fu in grado di sostenere con dotazioni adeguate, in particolare erano scarsi gli automezzi che avrebbero consentito di portare rapidamente i rifornimenti in prima linea.


Scarponi con chiodatura pesante per truppe alpine

Dal punto di vista costruttivo, probabilmente, il principale limite degli scarponi italiani va ricercato proprio nel sistema della chiodatura: aprendo microfori nella suola della scarpa si consentiva il passaggio di una certa quantità di umidità che, ad una temperatura di meno 40 gradi, gelava rapidamente esponendo il piede al congelamento. Per far fronte a tali difficoltà si ricercarono modelli di calzature più efficienti, ad alcuni reparti alpini, in primo luogo al Battaglione “Monte Cervino”, furono dati in dotazione nuovi scarponi con suola gommata in Vibram che risultarono particolarmente adatti a reggere le rigide temperature dell’inverno russo. Allo stesso tempo, studiando un peculiare tipo di stivale utilizzato dalle popolazioni locali, i cosiddetti “valenki”, furono creati stivali in feltro di lana pressato che potevano essere indossati sopra i normali scarponi come una sorta di galosce, oltre ad essere imbottiti di lana o paglia per mantenere gamba e piedi ancor più al caldo ed isolati dal gelo. Purtroppo anche queste dotazioni soffrirono la difficoltà dei trasporti per gli approvvigionamenti, gran parte di esse finì per accumularsi nei magazzini militari senza la possibilità di essere distribuite effettivamente alle truppe al fronte.


Bersagliere nel fango in Russia, indossa mezzi stivali con gambale

Nel complesso può considerarsi solo parzialmente vero che i soldati italiani affrontarono i vari fronti della Seconda Guerra Mondiale con dotazioni e vestiario non sempre all’altezza delle esigenze belliche, ma va definitivamente sfatato il mito degli scarponi di cartone e, con esso, il terribile sospetto che possano esserci state gravi speculazioni sulle forniture militari e, quindi, sulla vita dei nostri soldati.


venerdì 29 maggio 2020

Quanto spende davvero l'Italia per la difesa


In tempi di emergenza Covid-19 il dibattito sulle spese militari è tornato prepotentemente d'attualità, specie nel paragone con gli investimenti pubblici per il settore sanitario in Italia. Il tema andrebbe affrontato prescindendo da preconcetti ideologici e con una analisi puntuale dei dati, valutando non esclusivamente i risvolti economici ma anche gli obbiettivi di politica internazionale ed il posizionamento strategico del paese, senza peraltro ridursi ad una visione meramente settoriale del comparto difesa, ma cogliendone le implicazioni più ampie nel quadro macroeconomico nazionale.  

L'Italia è membro della NATO da un settantennio ed inevitabilmente è chiamata alla contribuzione al sistema di difesa comune, esigenza che si è fatta sentire in maniera pressante durante il lungo periodo della guerra fredda, nel corso del quale si è mantenuto un apparato militare di proporzioni notevoli, sia pur sempre sottodimensionato in rapporto alle esigenze, con maggiore capacità di spesa. Ma la fine della contrapposizione tra i blocchi ha fatto venir meno la priorità della difesa nazionale dall'agenda politica e l'Italia, come la totalità dei paesi europei, si è affrettata ad incassare il "dividendo di pace" tagliando indiscriminatamente la spesa militare, senza una reale visione strategica ma con la sola attenzione alle immediate conseguenze economiche: liberare risorse dal bilancio pubblico da destinare altrove, in un quadro economico internazionale volto ormai al liberismo spinto ed al contenimento della spesa statale. Dal 1990 lo stato italiano ha ridotto sempre più le dimensioni delle proprie forze armate ed ha speso sempre meno per la difesa, in un condiviso clima politico, che ha visto le forze conservatrici e moderate ben liete di liberarsi di quello che era stato considerato a lungo un settore mal tollerato ma necessario, di contro, le forze di sinistra, per una antica avversione antimilitarista, non hanno esitato a spingere per il ridimensionamento dell'apparato militare, guardato sempre con sospetto all'interno del sistema democratico. Questo atteggiamento ha avuto un impatto evidente sui capitoli di spesa, se nel 1970 il rapporto tra spese militari e Pil nazionale era del 2,2%, per poi toccare il picco nel biennio 1973/74 al 2,4%, nel 1990 il rapporto era già sceso all'1,8%, per poi attestarsi intorno all'1,4% alla fine del decennio successivo. Bisogna, peraltro, considerare che sul bilancio del Ministero della Difesa grava direttamente l'Arma dei Carabinieri, pertanto dagli stanziamenti del comparto, va scorporata la quota destinata all'arma benemerita, che si occupa principalmente di sicurezza interna ed ordine pubblico, non di funzioni propriamente militari. Nel 2000 su una spesa del Ministero della Difesa all'1,4% sul Pil, l'ordine pubblico pesava per lo 0,4, lasciando alla spesa militare vera e propria appena l'1% dell'economia nazionale, oggi, dopo vent'anni, quella quota è cresciuta, ed attualmente la funzione Sicurezza del Territorio assorbe un terzo degli stanziamenti per la difesa.   

Bilancio di previsione 2018, fonte: Ministero della Difesa

Per avere un'idea di raffronto: nel 2000 la Francia spendeva circa il 2,8% del proprio prodotto interno per il comparto difesa, in valori assoluti quasi il doppio dell'Italia, secondo il rapporto SIPRI 2019 (Stockholm International Peace Research Institute), per l'anno precedente la Francia ha impegnato il 2,3% del proprio Pil, mentre l'Italia l'1,3%, in valori assoluti i transalpini hanno speso 63 miliardi di dollari, poco meno del triplo del nostro paese che ne ha investiti 27. L'Italia sarebbe attualmente undicesima al mondo tra gli stati che spendono di più per le forze armate, scalando qualche posizione rispetto al 2017, ma solo perchè gli stati che ci precedevano, come Brasile e Australia, hanno ridotto i propri stanziamenti, mentre invariati sono rimasti quelli italiani. Significativo anche il dato sulla presenza militare italiana all'estero, che è rimasto costante nell'arco di un ventennio, con impegni rilevanti in particolare durante i conflitti in Serbia, Iraq e Afghanistan. Nel 2000 l'Italia schierava oltreconfine 9.500 soldati, oggi ne ha circa 7.000, cui vanno aggiunti quelli impegnati in ruoli operativi di pubblica sicurezza in territorio nazionale. Numeri importanti, specialmente a fronte del netto ridimensionamento degli effettivi: nel 2000, anno della riforma delle forze armate che ha sancito il passaggio al professionismo, il complesso di uomini in uniforme, compresi i Carabinieri, all'epoca prima arma dell'Esercito, era di 270.000 unità, nel 2020 sono circa 170.000, calcolando unicamente le tre armi tradizionali, benché le previsioni del famigerato Libro Bianco della Difesa fissino a 150.000 la quota prevista di militari in Italia entro il 2024. Continuando una linea di paragone, nel 2017 la Francia aveva in servizio attivo più di 200.000 militari direttamente dipendenti dal Ministero delle Forze Armate, oltre a 63.000 riservisti della Garde Nationale. 


Bilancio di previsione 2019, fonte: Ministero della Difesa


Bisogna, però, soprattutto comprendere la composizione della spesa militare, poiché, al contrario di quel che si crede generalmente, soltanto una piccola parte di essa serve in effetti all'acquisto di armi, missili, carri armati e cacciabombardieri. Nell'anno 2018 gli stanziamenti per il Ministero della Difesa sono stati di circa 21 miliardi di euro, di cui appena 13.797 milioni per le funzioni strettamente militari, di questa cifra il 73%, circa 10 miliardi, è servito per il pagamento di stipendi ed anticipazioni pensionistiche, la restante parte, per 1.400 milioni, è servita per il mantenimento di mezzi e strutture e, per poco più di 2 miliardi, per investimenti. Dati quasi analoghi per il 2019: aumenta di poco la spesa in valore assoluto, fino a superare di poco i 21 miliardi, con un crescita del 2,2%, ma resta pressoché invariata la quota per la funzione difesa, 13.982 milioni, mentre per le funzioni di ordine pubblico è di 6.898 milioni. Per la difesa, il 74% degli stanziamenti è destinato alle retribuzioni del personale, aumenta di poco la cifra per gestione e mantenimento, ma cala vistosamente quella per gli investimenti, che fa registrare un meno 19%, con 1.869 milioni di euro. In quest'ultimo settore svolge, da anni ormai, un ruolo di supplenza il Ministero dello Sviluppo Economico, che ha specifici capitoli di spesa per programmi industriali attinenti alla produzione per la difesa, i dati teorici sarebbero di 2.800 milioni per il 2019, in calo rispetto agli anni precedenti, che però non si risolvono in acquisti netti e produzione, ma sono distribuiti ad ampio raggio al settore industriale nazionale e destinati ai progetti di ricerca e sviluppo, anche in parternariato con gli alleati europei. Senza dimenticare che parte del bilancio è destinato alle "Funzioni esterne", nelle quali sono ricompresi i voli di stato, rifornimenti idrici alle isole e spese accessorie. Nel complesso la spesa per il settore militare si attesta tra l'1,4 e 1,5% del Pil, ben al di sotto della spesa sanitaria, che arriva al 6,6%. 


Il ruolo internazionale del paese dipende dalla sua capacità militare, la possibilità di intervenire con la proiezione diplomatica dei "boots on ground" e di cooperare all'estero con le forze in ambito NATO, nonché il prestigio nazionale e la capacità di difendere gli interessi strategici dell'Italia, sono tutti correlati alla spesa per la difesa. Le missioni all'estero, sono, infatti, una voce di spesa rilevante, sia pur, tutto sommato, secondaria sul bilancio della difesa: la missione in Afghanistan, dal 2001 al 2017, è costata oltre 7 miliardi, mentre le presenza italiana in Iraq, dal 2003 al 2019, è costata già 2 miliardi e 600 milioni di euro, nel 2018 la partecipazione alla coalizione internazionale anti-Isis è costata 250 milioni. Le ristrettezze di bilancio, in primo luogo, incidono sulla capacità di ammodernamento dei mezzi e, dunque, sull'efficienza operativa dei reparti e sulla sicurezza dei soldati. Per poter cooperare efficacemente nelle missioni internazionali le forze armate italiane hanno bisogno di aggiornare i propri armamenti ed acquisire nuove dotazioni, a partire dall'Aeronautica, che nell'ultimo decennio ha avviato la sostituzione degli AMX "Gibli" e degli F-16 con il caccia Eurofighter e con il discusso programma F-35. Altra priorità è l'ammodernamento della componente terrestre: lanciato nel 2002 il progetto "Soldato Futuro" prevede l'implementazione delle dotazioni individuali, a partire dalle tute mimetiche, e l'acquisto di nuove armi individuali, come il nuovo fucile d'assalto Beretta ARX 160, oltre a visori, sensori e tecnologie di comunicazione. Da questo progetto, già sottoposto ai tagli dei governi Monti e Renzi, tra il 2012 e il 2015, è germogliato nel 2019 il "Consorzio Sistema Soldato Sicuro", tra il gruppo Leonardo e la Beretta, per la produzione di dispositivi di protezione, sopravvivenza e precisione, la cui distribuzione alle truppe, con priorità ai reparti che fanno parte delle forze di proiezione in teatro operativo, è iniziata nei primi mesi del 2020 e dovrebbe avere, a pieno regime, un costo complessivo di 1 miliardo e 600 milioni di euro. A parte i mezzi blindati ruotati, che avranno una vita media ancora piuttosto lunga, l'Esercito sta aggiornando in questi mesi il carro armato "Ariete", corazzato di punta delle nostre forze armate. Il mezzo è già al secondo ammodernamento, che costerà circa 35 miliardi di euro tra il 2020 e il 2024, e dovrebbe prolungarne la vita operativa fino al 2030, ma dopo questa data il carro dovrà essere sostituito ed ancora non ci sono investimenti significativi in tal senso, né l'Italia ha aderito a consorzi internazionali per lo sviluppo di un nuovo mezzo. La Marina Militare, in dieci anni, è riuscita faticosamente a portare a termine il programma di acquisizione delle nuove fregate FREMM, per un costo totale di circa 6 miliardi di euro, costruite da Fincantieri interamente in Italia, negli stabilimenti liguri di Riva Trigoso.   


Carri Ariete

E' evidente che ipotetici tagli alla spesa militare significherebbero, in primo luogo, tagli agli stipendi ed ai posti di lavoro, significa operare una riduzione delle possibilità di "effetto moltiplicatore" sull'economia italiana dei redditi prodotti degli addetti diretti al comparto difesa e dall'indotto delle industrie nazionali che hanno le forze armate come principali acquirenti. Del resto, al netto delle convinzioni e delle velleità pacifiste, il posizionamento internazionale di un paese è dato anche dalla sua capacità militare e dalla sua preparazione a partecipare ad interventi armati, a supporto della pace, delle politiche umanitarie o della sicurezza internazionale, nell'ambito delle organizzazioni tra gli stati. In questi teatri operativi, laddove sono impiegati i soldati italiani, è necessario che l'intervento sia efficace e che il personale impiegato possa operare al massimo della sicurezza possibile, altrimenti siamo nell'ambito di una politica estera suicida ed improduttiva. L'Italia spende per la propria difesa militare una parte minimale delle proprie risorse, nettamente inferiore agli altri paesi alleati, sia dell'Unione Europa che dell'alleanza atlantica, in netto contrasto con le aspirazioni al ruolo di paese importante nel panorama mondiale. La quota di investimenti militari è insufficiente alle esigenze del paese e, soprattutto, ben lontana dalle narrazioni della retorica pauperista ed antimilitarista.      

SdC


Riferimenti e fonti 

L'esercito europeo, Agenzia Pubblica Informazione SME, 2000

M. Pianta, La spesa militare in Italia. Dinamica e composizione della spesa del Ministero della Difesa 1970-88, Min. Tesoro - Commissione tecnica per la Spesa Pubblica, 1988

A. Locatelli, L’evoluzione delle politiche di difesa in Europa nel post-Guerra fredda. Europeizzazione o trasformazione della difesa?, CEMISS, 2010

SIPRI Yearbook 2019 Armaments, Disarmament and International Security, Oxford University Press, 2019

Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, Ministero della Difesa, 2015

Economia a mano armata. Libro bianco sulle spese militari 2012, Sbilanciamoci!, 2012

Serie Bilancio Ministero della Difesa, anni vari

www.senato.it

www.difesa.it

www.analisidifesa.it

www.milex.org

  

lunedì 27 aprile 2020

La resa di Caserta del 1945


La fine del secondo conflitto mondiale in Italia e, con essa, la resa delle forze tedesche, fu indipendente dalla morte di Mussolini e determinò anche la fine militare della Repubblica Sociale Italiana, essa è passata alla storia come resa di Caserta. Le Forze Armate della RSI, salvo quelle già travolte dall'avanzata dalle truppe delle Nazioni Unite che stavano occupando il nord Italia e quelle arresesi anticipatamente alle forze del Comitato di Liberazione che avevano ottenuto la consegna delle armi, risultarono ufficialmente sconfitte il 29 aprile 1945.

La firma dei delegati tedeschi

Nel febbraio-marzo 1945 il capo dell’OSS in Svizzera, Allen Dulles, aveva lanciato l’operazione Sunrise-Crossword per ottenere una resa negoziata delle forze tedesche in Italia,  appoggiata dal Vaticano e dal CLN, avviando trattative con l’ufficiale delle SS Eugen Dollmann. Il Quartier Generale alleato di Caserta, per superare la forte contrarietà sovietica - alimentata dalle preoccupazioni di Stalin che temeva una manovra angloamericana per isolare militarmente l’URSS – impose ai negoziatori tedeschi l’impegno a garantire la capitolazione incondizionata di tutte le loro forze in Italia, compresi i reparti della Repubblica Sociale che, non essendo riconosciuta dagli alleati,  non aveva con essi rapporti diplomatici diretti. Dopo estenuanti trattative l'URSS nominò un suo osservatore all'atto conclusivo, il Generale Kislenko, e l’accordo fu denominato “Strumento di resa locale delle forze tedesche e delle altre forze poste sotto il comando o il controllo del Comando Tedesco Sud-ovest”, che nella classificazione alleata fu considerata come local surrender, la resa di un solo settore definito del fronte.
Il generale Morgan con la delegazione alleata


Nella trattativa giocò un ruolo determinante il Generale Karl Wolff, plenipotenziario della Wehrmacht e comandante in Italia delle SS, con il grado di Obergruppenführer. Riuscì ad ottenere il coinvolgimento di tutti i reparti in armi della RSI attraverso la firma di uno specifico atto di delega che il Maresciallo Graziani, Ministro e comandante delle Forze Armate della Repubblica di Salò, gli rilasciò a Cernobbio il 26 aprile, specificando che le trattative dovessero svolgersi “alle stesse condizioni praticate per le Forze Armate Germaniche in Italia con intese impegnative riguardo alle truppe regolari dell’Esercito Italiano, dell’Arma Aerea e della Marina, come pure Reparti militari fascisti”, equivalenti alle  capitolazioni tedesche del 22 e del 25 aprile precedenti. Wolff fu aiutato dagli agenti americani dell’OSS operanti in Svizzera a muoversi liberamente tra il territorio elvetico ed il lago di Como, così il 27 aprile, da Lucerna, inviò la traduzione in tedesco della delega di Graziani al Maggiore Eugen Wenner che fu delegato a recarsi a Caserta, dopo aver ricevuto l’assenso e le credenziali del Generale Von Vietinghoff, comandante del Gruppo di Armate C in Italia.


Il testo della delega di Graziani
La resa fu firmata nell’antica reggia borbonica di Caserta, sede del Quartier Generale delle forze alleate in Italia, il 29 aprile dal Colonnello della Wermacht Hans Lothar von Schweinitz e dal Maggiore delle SS Eugen Wenner, che si presentarono in abiti borghesi, per conto delle armate tedesche in Italia e per conto dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, che esibirono la delega di Graziani, che fu allegata al documento finale, mentre, per gli alleati fu sottoscritta dal Generale William Morgan, dell’esercito inglese, capo di stato maggio del Comando supremo alleato nel Mediterraneo. Alla presenza del  Generale americano Lemnitzer, del  Colonnello Sweetman, del Contrammiraglio Lewis, capo di stato maggiore delle forze navali alleate, del Mar Baker, capo di stato maggiore delle forze aeree, del Generale sovietico Kislenko, del Tenente polacco Vraeveskj. Il testo del cessate il fuoco fu redatto in inglese e in tedesco, fissava alle ore 12.00 del 2 maggio 1945 la fine delle ostilità.
Salvatore Palladino

martedì 31 marzo 2020

L'uniforme di Arafat

Il leader palestinese Yasser Arafat ha passato la sua intera vita a combattere, sin da quando, nel 1956, si arruolò nell'esercito egiziano durante la crisi di Suez, combattendo nella prima guerra del Sinai contro gli israeliani. Personalità complessa e personaggio spesso discusso, Arafat, da quando ha assunto un ruolo di primo piano nell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha sempre indossato una uniforme, mostrandosi solo raramente in borghese, come in occasione del famoso discorso all'ONU del 1974, durante il quale, però, aveva la pistola al fianco. A partire dal decennio successivo, quando il suo ruolo di interlocutore internazionale diverrà sempre più affermato, Arafat affiancherà all'immagine del guerrigliero quella dell'uomo di stato, pur senza mai abbandonare l'aspetto marziale, con l'aggiunta dell'immancabile kefyah, che gli derivava dall'essere, dal 1970, comandante dell'Armata per la Liberazione della Palestina, poi, dal 1970, comandante in capo delle forze rivoluzionarie palestinesi, cui assommerà, nel 1989, la carica di presidente dell'autoproclamato Stato Palestinese.


Sul campo insieme ai guerriglieri


In occasione della firma degli accordi di pace di Oslo del 1993


In moltissime immagini, dall'inizio degli anni '80, la guida dell'indipendentismo palestinese compare non più con le giubbe da campo e gli scarponi tipiche degli anni della guerriglia, ma, specie nelle cerimonie pubbliche e negli incontri ufficiali, con una particolare divisa formale di foggia occidentale, molto sobria che lo accompagnerà fino al grande momento di consacrazione della sua vita: la consegna del premio Nobel per la pace. Quella particolare tenuta, ad osservarla bene, ha tutta l'impressione di essere una uniforme ordinaria italiana da truppa modello 1973, composta da giacca a quattro tasche e pantaloni lunghi in tessuto di lana color cachi. Una tipica fornitura dell'amministrazione militare. Arafat la sfoggiò in diversi incontri proprio con i dirigenti dei partiti della sinistra italiana che appoggiavano la causa palestinese, o durante visite in Italia, in occasione della firma del trattato di Oslo, che sancì il riconoscimento ufficiale dell'OLP e rappresentò una pietra miliare nel processo di pace in medio oriente, ed in occasione della consegna del Nobel nel 1994.


 
Con la moglie Suha alla cerimonia di insediamento di Nelson Mandela nel 1994


Consegna del premio Nobel


Arafat con Andreotti e De Mita a fine anni '80


Arafat con Lamberto Dini negli anni '90


E' una ipotesi non troppo fantasiosa, del resto sono noti gli stretti contatti politici tra Italia e fronte palestinese, a partire dal non troppo leggendario "lodo Moro", accordo di tacita benevolenza reciproca, che sarebbe stato concluso tra l'esponente democristiano Aldo Moro e George Abbash, capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Secondo quell'accordo il governo italiano avrebbe consentito il passaggio indisturbato sul territorio nazionale di uomini ed armi della resistenza palestinese, ottenendo l'immunità del paese da qualsiasi azione terroristica. Non è da escludere che in quel flusso di materiale sia potuto finire un piccolo lotto di uniformi dell'esercito, allungato da qualche funzionario compiacente dei servizi segreti italiani, oppure le divise potrebbero essergli state fatte recapitare da Craxi all'epoca in cui era alla guida del governo, dopo l'incontro avvenuto a Tunisi nel 1984. E' infatti dopo quell'anno che la figura simbolo della resistenza araba in Palestina inizia ad adoperare quella particolare divisa, personalizzata sostituendo i bottoni, aggiungendo sull'omero uno scudetto metallico con i colori nazionali palestinesi e appuntando vari distintivi sul petto.

Con Shimon Peres, si nota il tessuto della giacca e lo scudetto metallico






Vista fronte/retro di una giubba mod.73 dell'Esercito Italiano



Durante la cerimonia di Oslo, dall'inquadratura si nota chiaramente la martingala della giacca


Vi sono alcuni dettagli che paiono inconfondibili e che militano per una identificazione certa dell'uniforme: in primo luogo il colore ed il taglio peculiare delle tasche e dei baveri a dente, ma, soprattutto, la presenza di una finta martingala cucita posteriormente alla giacca, elemento caratteristico delle uniformi italiane in uso fino al 1987. Questa uniforme lo accompagnerà in tutti i viaggi all'estero e tutte le uscite solenni fino alla metà degli anni '90, quando, probabilmente complice l'avanzare dell'età e l'impossibilità di aver nuove forniture, la sostituì con nuove tenute di produzione locale, dalla foggia meno formale e dal taglio più ampio. Forse è solo una suggestione, ma più si guarda quella giubba che l'ha reso famoso e più sembra proprio una uniforme italiana, l'approfondimento del tema, al di là del dettaglio specifico, aprirebbe una riflessione interessante sul ruolo geopolitico dell'Italia in Medio Oriente in un determinato contesto storico.


Viaggio in Italia dell'ottobre 2001, la divisa ha un taglio assai più sportivo e semplice. Fu l'ultima missione all'estero dell'anziano raìs palestinese

venerdì 31 gennaio 2020

Lodi cavalca ancora


Dalla gloria del passato ritornano i Cavalleggeri di Lodi, a gennaio, presso la caserma "Nacci" di Lecce, è stato ricostituito il Reggimento Cavalleggeri Lodi (15°) per trasformazione del 31° Reggimento Carri, che è stato contestualmente soppresso. Il ricostituito reparto di cavalleria andrà a costituire la componente esplorante tattica della Brigata meccanizzata pluriarma "Pinerolo", su autoblindo Centauro, per assolvere al ruolo di ricognizione con celerità ed elevata mobilità, secondo le intenzioni dello Stato Maggiore dell'Esercito. Alla cerimonia che ha sancito il passaggio di specialità dai carristi alla cavalleria erano presenti, tra le altre autorità, il comandante delle Forze Operative Sud, Generale Rosario Castellano, il comandante della "Pinerolo", Generale Giovanni Gagliano e il comandante della Scuola di Cavalleria, Generale Minelli. E' stato proprio il Generale Castellano a consegnare al comandante del Reggimento, Colonnello Francesco Serafini, il basco nero con il nuovo fregio della Cavalleria. Lo stendardo reggimentale, custodito fino ad ora al Sacrario delle Bandiere del Vittoriano dallo scioglimento del Reggimento nel 1995, è stato riportato a Lecce ed ha tornato a sventolare quale simbolo tangibile dell'appartenenza dei militari del reparto, assieme al suo storico motto "Lodi s'immola". 

Il Reggimento Cavalleggeri di Lodi ha tradizioni gloriose: esso fu costituito il 16 settembre 1859 prendendo parte alle operazioni contro il brigantaggio meridionale e, nel 1870, alla presa di Roma. Si distinse nel 1911 nella guerra italo-turca, partecipando con i suoi uomini al duro e vittorioso combattimento di  Henni Bu-Meliana, il 26 ottobre, che da allora è il giorno in cui si celebra la festa del reggimento. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale combattendo in Albania e in Francia, durante la Seconda Guerra Mondiale fu operativo in Africa Settentrionale schierato su autoblindo, in seguito parteciperà alla difesa della Sicilia e, con un reparto salmerie, alla guerra di liberazione. Ricostituito a livello di Squadrone nel 1952, fu poi elevato a Gruppo Squadroni Esplorante e stanziato in provincia di Novara. Con i propri carri armati il reparto partecipò a diversi cicli operativi, sia in patria, in occasione del soccorso alle popolazioni durante il terremoto dell'Irpinia, che all'estero, in occasione dell'intervento in Libano. Dopo aver preso parte all'operazione Vespri Siciliani il reggimento, di stanza a Lenta, fu sciolto nel 1995, prima della attuale ricostituzione. 
Lo stendardo reggimentale è decorato di tre Medaglie d'Argento al Valor Militare e di una Medaglia di Bronzo al Valor Civile. I colori distintivi sono il rosso ed il nero, presenti anche sulle mostrine, formate da fiamme a tre punte nere su sottopanno rosso.