domenica 25 febbraio 2018

Come muoiono le associazioni d'arma

Nel mondo delle associazioni d’Arma io ci sto dentro da vent’anni, inizialmente come associato e in seguito assumendo incarichi di responsabilità e partecipando alle riunioni di Assoarma. Quest’ultima sigla identifica l’organo collegiale che garantisce il coordinamento fra le più di trenta associazioni riconosciute dal Ministero della Difesa ed è delegato a comunicare direttamente con il Sottosegretario alla Difesa e con lo Stato Maggiore. Attualmente a capo di Assoarma c’è il generale Buscemi, sicuramente più energico di chi l’ha preceduto. Nonostante questo, si assiste oggi al lento tramonto sia delle associazioni combattentistiche che di quelle d’Arma. Intanto, l’anagrafe: l’età media degli iscritti parte dalla cinquantina in su e la sospensione della leva ha di fatto anemizzato il ricambio generazionale. Tutte le associazioni risentono dunque del mancato ricambio alimentato dai congedati della leva. 

Situazione in realtà pregressa: nel corso degli anni l’afflusso di giovani soci era sensibilmente rallentato, per una serie di cause che comprendono sia fattori interni che esterni. Il primo è la struttura conservatrice dei gruppi dirigenti: presidenti di sezione in carica per vent’anni di seguito, cattiva amministrazione, reduci di guerra chiusi verso gli esterni, più l’idea oggi antiquata che un giovane ricerchi solo l’appartenenza al reggimento dove ha fatto la naia e non chieda anche attività sociali, sconti in palestra e corsi di aggiornamento. Quanto al congedato attuale, è un VFP ormai disoccupato e deluso dall’Esercito che lo ha mandato a casa dopo tre o cinque anni di servizio, per cui non è motivato a iscriversi. Il resto lo fa il nuovo assetto delle FF.AA.: i concorsi gratuiti sono un ricordo, tutto ha un prezzo e in più sabato e domenica i militari si pagano in straordinario, col risultato di limitare se non azzerare la collaborazione fra enti militari. Intanto ripercorriamone la storia. Apolitiche per statuto ma sostanzialmente conservatrici (ma i parà vanno anche oltre), alcune nascono nell’800, come l’Associazione Nazionale dei Bersaglieri o l’Associazione Arma di Cavalleria, con il compito preciso di mantenere lo spirito di corpo e creare una mutua assistenza tra famiglie di reduci, ma il grosso risale agli anni immediatamente dopo la prima Guerra Mondiale. Le ultime in ordine di tempo sono le associazioni partigiane nate immediatamente dopo il 1945. Una cosa sono le associazioni ex-combattentistiche, altro sono quelle d’arma e reggimentali. Le prime legano a vita i protagonisti e testimoni di fatti storici vissuti per esperienza personale, le altre riaggregano chi ha prestato servizio in quel corpo o ne ama condividere le finalità. E’ evidente che, col passar degli anni, i reduci invecchiano e alla fine l’associazione si estingue, a meno di non affiliare figli e nipoti. Penso ai cavalieri di Vittorio Veneto o ai Volontari di Guerra o ai Volontari e Reduci Garibaldini, all’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. La distanza temporale dall’ultima guerra italiana – ormai più di settant’anni, grazie al cielo – spiega l’estinzione di fatto di alcune associazioni. Comparate con le due guerre mondiali, le operazioni recenti sono state troppo brevi o hanno impegnato troppi pochi uomini per creare associazioni di rilievo. Se poi il nazionalismo anteguerra ha abilmente sfruttato le masse degli ex-combattenti, sembra invece che la Repubblica italiana non abbia mai capito è l’importanza delle associazioni d’Arma, relegate di fatto a funzioni decorative nelle cerimonie pubbliche o in parte coinvolte bella protezione civile. Eppure l’Associazione Nazionale Alpini (ANA), i Bersaglieri (ANB) e quella dei Carabinieri svolgono funzioni di protezione civile e sorveglianza ben note alla gente, anche perché hanno tuttora decine di migliaia di iscritti. Si direbbe però che rimanga sempre l’atavica diffidenza dello Stato italiano verso le associazioni volontarie, peggio ancora se istruite all’uso delle armi. 

Solo l’UNUCI (Ufficiali in congedo) – ente fondato nel 1926 - prevede nello statuto l’addestramento, anche se spesso disatteso, e proprio l’UNUCI è stata ora retrocessa da ente ausiliario dello Stato ad associazione di diritto privato.In Italia non è stata mai organizzata una riserva di tipo europeo e in sostanza si è sprecato per anni il potenziale che le associazioni d’Arma potevano dare in quel senso. Chi scrive può testimoniare la diffidenza dei quadri militari verso il personale in congedo. Quanto all’UNUCI, finché era un ente ausiliario dello Stato il suo presidente era nominato dal Ministro della Difesa, ma mai l’incarico è stato affidato a generali giovani e dinamici, essendo piuttosto la prebenda dei generali in pensione che volevano farsi l’ufficio gratis e mantenere i contatti col Ministero. So di essere duro, ma non aver strettamente legato l’attività dell’UNUCI a quella dei distretti militari non ha integrato i due enti nel modo più logico: le sezioni dovevano segnalare gli ufficiali idonei al richiamo per aggiornamento e/o avanzamento in base a una preselezione. Nessuno ha mai pensato al Libretto del Riservista (come in Germania), dove vengono annotate le partecipazioni degli iscritti a corsi, gare di tiro, pattuglie militari, mentre hanno richiamato per anni gente mai vista nelle sezioni. Peggio ancora, nessuna sezione UNUCI ha mai organizzato un corso di preparazione per tutti quegli ufficiali di complemento che volevano fare il concorso per passare in SPE. Eppure l’UNUCI era un ente ausiliario dello Stato. Ma se per anni molte associazioni d’Arma sono state solo dei “poltronifici” è anche colpa degli iscritti, troppi dei quali pagano per anni la quota sociale senza chiedere niente, senza partecipare alle attività istituzionali, senza esigere di rendere pubblico un bilancio di sezione, senza nemmeno ricevere le patinate o spartane riviste d’associazione. 

Sono importanti, visto che sono l’immagine dei gruppi dirigenti e lo specchio della vita associativa. Quelle degli alpini sono decine, altrimenti ogni associazione ne ha ufficialmente quasi una sola, visti i costi di stampa e distribuzione attuali. Scarsi gli articoli sui reparti in servizio, immancabili le cerimonie pubbliche, frequenti le sagre di paese, i necrologi, i raduni locali. Non manca mai qualche articolo sulla storia di una MOVM, di una battaglia, di un episodio storico, e la qualità dipende da chi scrive. Spesso il linguaggio è un po’ antiquato e retorico, ma le ricerche storiche sono in genere serie e ben documentate. Sempre interessanti le foto tirate fuori dal cassetto, meno invece articoli come “La prostata questa sconosciuta” e la rubrica “I nostri lutti” . Immancabili le rubriche su promozioni, nozze, nascite, ricerca di commilitoni.

Marco Pasquali

tratto da www.difesaonline.it

martedì 6 febbraio 2018

Condottieri e battaglie della Napoli spagnola


Il volume “Condottieri e battaglie della Napoli Spagnola”, che ripercorre le vicende militari del Regno di Napoli in epoca vicereale, tra il XVII e il XVIII secolo, è il nuovo interessante contributo alla storia del meridione provenente dal costante lavoro del sito Historia Regni. Il testo, la cui prefazione è stata scritta dal Console di Spagna a Napoli, si avvale del contributo di ricercatori italiani e spagnoli e prova a far luce sulle vicende, ancora poco note, dell’impegno dei meridionali nelle armate spagnole nel periodo di massima espansione del Regno di Spagna. Si scopre così, sfogliando le pagine, che furono assai numerosi i sudditi provenienti dai domini sulla penisola italiana inquadrati nei “tercios de Napoles”, alcune delle formazioni più addestrate ed affidabili dell’esercito spagnolo, impiegate soprattutto nelle guerre europee, sia nelle Fiandre che nella guerra dei trent’anni in Francia e nel Monferrato. Ma i picchieri napoletani furono impegnati, dando grande prova di sé, anche nelle campagne oltreoceano nelle americhe. Dal testo emerge anche la particolare politica della corono spagnola, volta alla fidelizzazione ed alla aggregazione dell’aristocrazia italiana al progetto imperiale, avviando un processo di interscambio tra le classi dirigenti tra le sponde del Mediterraneo che portò numerosi esponenti del ceto nobiliare italiano ad ascendere a posizioni di grande rilievo, sia nei ranghi militari che nelle funzioni di governo civile. Il testo ha soprattutto il grande merito di aprire uno squarcio su una prospettiva diversa delle dinamiche tra il potere spagnolo ed i domini napoletani, questo è reso possibile soprattutto dal ricorso ai documenti conservati negli archivi spagnoli e dallo studio della documentazione a carattere militare, sino ad ora poco approfondita. È edito per i tipi della D’Amico Editore.